La multinazionale spagnola Ebro Foods, co­losso mondiale dell’agroalimentare qualche settimana fa ha rilevato il 25% della Riso Scotti, storica impresa pavese da oltre 150 anni di proprietà dell'omonima famiglia. Superfluo aggiungere che il timore che serpeggia tra gli addetti ai lavori è che l'operazione, sbandierata come un'alle­anza di natura industriale e commerciale per favorire una maggiore penetrazione sui mercati internazio­nali, sia solo il preludio alla cessione totale dell'azien­da lombarda alla multinazionale iberica, già presente nel settore in Italia con la controllata Mundiriso.  D'altronde, la cessione di marchi “Made in Italy” non è una novità, dalla Buitoni alla Perugina, acquisite dalla multina­zionale elvetica Nestlè nel lontano 1988, passando per aziende lattiero-casearie del calibro di Locatelli, Invernizzi, Galbani e Parmalat, tutte finite una dopo l'altra nell'ultimo decennio sotto il controllo del gigante francese Lactalis. E l'elenco potrebbe continuare citando la spagnola Deoleo, che negli ultimi anni ha fatto incetta di marchi blasonati nel settore dell'olio d'oliva italiano, mettendo le mani prima su Sasso, poi su Carapelli e, infine, Bertolli. Che l’agroalimentare italiano sia ormai diventa­to terra di conquista da parte delle multinazionali straniere è purtroppo un fatto assodato. La questione è stata affrontata nell'ultima relazione annuale trasmessa al Parlamento dal Dipartimento informazioni per la sicurezza (Dis), nel quale viene tra l'altro con forza sottolineato che la crisi economica sta rafforzando l'azione aggressiva di gruppi esteri che puntano ad acquisire «patrimoni industriali, tecnologici e scien­tifici nazionali, nonché marchi storici del mode in Italy, a detrimento della competitività delle nostre imprese strategiche». L'attività informativa, si legge ancora nella relazione, ha confermato il perdurante interesse da parte di attori esteri nei confronti del comparto produttivo nazionale, specialmente del­le piccole e medie imprese, colpito dal prolungato stato di crisi che ha sensibilmente ridotto tanto lo spazio di accesso al credito quanto i margini di redditività. Un segnale d'allerta, quello proveniente dal Dis, prontamente rilanciato dalle organizzazioni agri­cole, che richiamano l'attenzione sui rischi di de­pauperamento e perdita di competitività del nostro sistema agroalimentare derivanti dal passaggio in mani straniere dei pezzi da novanta del mode in Italy a tavola. «La crisi economica - osserva la Confede­razione italiana agricoltori - rende più vulnerabili le nostre imprese, che sono cosi prese di mira dai grup­pi esteri che mettono in atto particolari manovre di acquisizione per scippare marchi storici e conquista­re sempre più spazio nel settore. E i danni sono evi­denti soprattutto per i nostri agricoltori, che vedono ridursi le vendite, in quanto l'approvvigionamento di queste società è rivolto ad altri mercati». La relazione dei nostri servizi segreti - prosegue la Cia - ha messo il dito nella piaga, evidenziando una situazione sempre più critica, che la diffici­le congiuntura economica rischia di far diventare drammatica, con le multinazionali estere che ormai controllano oltre il 70% dei prodotti che finisco­no sulle nostre tavole. «L'agroalimentare italiano è strategico e deve essere tutelato - incalza ancora la Confederazione -. Non vogliamo essere tacciati di nazionalismo o protezionismo, però non si può continuare ad assistere passivamente all'assalto dello straniero.

La nuova norma su­gli appalti rischia di aprire l'ennesi­mo caso agricolo. L'esten­sione alle imprese agricole dei vincoli «pensati» per i grandi appalti dell'edilizia, secondo le organizzazioni, viaggia verso un ulteriore appesantimento burocrati­co. Un fardello che l'agri­coltura già pressata da «scartoffie» rispedisce al mittente. Vediamo i fatti. Sotto ac­cusa sono finite le disposi­zioni sulla «responsabilità solidale nell'ambito dei contratti di appalto e subap­palto» che l'Agenzia delle Entrate con la circolare n. 2/E ha esteso a tutte le tipo­logie di appalti. Nel 2012 una delle leggi per lo sviluppo del gover­no Monti ha introdotto la responsabilità a carico del committente. In pratica il committente è stato investi­to del compito di verifica­re se l'appaltatore abbia pa­gato l'Iva e le ritenute sul lavoro dipendente. Un con­trollo che se non svolto be­ne fa scattare multe pesan­tissime. Un sistema a misu­ra di edilizia, ma dal 1° marzo a sorpresa l'ammini­strazione finanziaria ha deciso di allargare la platea dei soggetti interessati e so­prattutto senza limiti quan­titativi della prestazione. E così per esempio anche un qualsiasi intervento di ara­tura commissionato dal­l'agricoltore al contoterzista finisce sotto il cappello della nuova legge. Le scel­te sono due: o si richiede l'autocertificazione da par­te di chi presta l'opera (con aggravio inevitabil­mente anche di carattere economico) oppure si ef­fettuano i controlli. Spesso impossibili. E con il ri­schio in caso di errori di pagare multe salatissime fi­no a 200mila euro. Ecco il «paradosso» agricolo: per un lavoro di pochi euro se ne potreb­bero pagare migliaia di multa.  Insomma, l'ennesimo «pasticciaccio» che ha spinto Cia e Confagricoltura a esprime­re la più ferma protesta.«Particolarmente grave - denunciano Cia e Confagricoltura in una no­ta congiunta - la situazio­ne che si viene a creare nel settore agricolo, dove è ri­chiesto alla totalità degli operatori del settore, anche di modeste dimensioni, di assumere la certificazione, da parte del prestatore di servizi, di aver assolto gli adempimenti in materia di Iva e di versamento delle ritenute, anche con riferi­mento ad appalti di modi­co valore contrattuale. La nuova Legislatura che si sta for­mando in questi giorni ha il dovere, anche etico, di can­cellare una misura che im­pone alle imprese di farsi carico di un'attività di con­trollo che compete all'Am­ministrazione finanziaria. Una misura che va contro ogni proposito di semplifi­cazione degli adempimenti gravanti sulle imprese tan­to sbandierati dalle forze politiche in campagna elet­torale».

La crisi pesa e picchia duro sulle famiglie italiane. Con una conseguenza eclatante: oltre sette famiglie su 10 (71%) negli anni della recessione han­no modificato quantità e qualità dei prodotti acquistati. È uno spaccato triste quello offerto in questi giorni in audizione dal presidente dell'Istat Enrico Giovannini. Tra il 2008 e il 2012, cioè da quando è iniziata la fase recessiva dell'econo­mia, le famiglie hanno ridotto il budget a disposizione per la spesa alimentare di oltre 12 miliardi di euro. Un fe­nomeno progressivo commenta il presidente della Cia Confederazione italiana agricoltori di Ascoli Piceno e Fermo che si è radicalizzato nell'ultimo anno, con le famiglie che si sono tro­vate a far fronte all' aumento esponen­ziale degli oneri fiscali (basti pensare all'Imu) mentre sono crollati ancora redditi e potere d'acquisto. Non solo. L'Istat racconta anche di disperate strategie di risparmio nel settore ali­mentare, tanto che nell'arco tra il 2007 e il 2013, la quota di famiglie che ha acquistato presso hard discount è quasi raddoppiata, superando il 21% nel 2011. Il fenomeno riguarda soprattutto i nuclei della fascia con i livelli di spesa più bassi. Famiglie che, nel confronto tra il 1997 e il 2011,hanno aumenta­to la spesa media del 42% ricorrendo anche a forme di indebitamento al punto che, nel 2011, il 19% di esse ha intaccato i propri risparmi e tra que­ste quasi la metà ha anche aumenta­to i debiti esistenti o ne ha contratto di nuovi. Sono gli stessi nuclei spiega ancora l'Istat nel documento presen­tato alle Commissioni speciali di Ca­mera e Senato che hanno sostanzial­mente eliminato le spese legate a voci non strettamente necessarie aumen­tando, anche a seguito della dinami­ca inflazionistica di tali beni e servizi, le spese per l'abitazione, combustibi­li e trasporti. Anche chi non rinuncia al biologico ora lo va a comprare dove costa di me­no; un segmento che continua a cre­scere (+7,3%) a dispetto del calo dei consumi alimentari convenzionali (3%), dove però, cambia radicalmente la modalità d'acquisto che si orienta sul lowcost. Negli ultimi dodici mesi, infatti la spesa bio nei discount ha fatto regi­strare un incremento record del 25,5%, mentre i supermercati resta­no a quota+5,5%. Magra consolazione.


Dal 2013 i Comuni non avrebbero più la facoltà di intervenire sull'aliquota Imu per i fab­bricati rurali ad uso strumentale, fissata allo 0,2%, riducendola sino allo 0,1%. A sostenerlo è  il Ministero dell'Econo­mia, in una risoluzione del 28 marzo, sulla base di alcune novità intro­dotte dalla legge di stabilità 2013. In  un comunica­to congiunto  Cia e Confagricoltura  contestano questa interpretazione in quanto il ben noto decreto "Salva Italia" (DI. n. 201 /2011), ave­va stabilito, tra i vari aspetti, che "c) aliquota per i fabbricati rurali stru­mentali: 0,2%, con la possibilità per cia­scun Comune di ridurla fino allo 0,1%". Chi scrive sottolinea che l'interpreta­zione delle finanze è del tutto arbitraria, poiché la legge di stabilità non ha in al­cun modo modificato, né direttamente né indirettamente, la possibilità per i Co­muni di applicare l'aliquota Imu dello 0,1% ai fabbricati rurali strumentali, infatti, il comma c dell'art. 13, del decreto salva Italia, risulta del tutto vigente. La richiesta che Cia e Confagricoltura hanno rivolto al ministro dell'Economia è quella di un «intervento urgente, volto a fare chiarezza sull'applicazione della norma speciale che prevede la riduzione dell'aliquota fino allo 0,1% per tutti i fab­bricati rurali strumentali, onde evitare ingiustificate discriminazioni».