La nuova norma su­gli appalti rischia di aprire l'ennesi­mo caso agricolo. L'esten­sione alle imprese agricole dei vincoli «pensati» per i grandi appalti dell'edilizia, secondo le organizzazioni, viaggia verso un ulteriore appesantimento burocrati­co. Un fardello che l'agri­coltura già pressata da «scartoffie» rispedisce al mittente. Vediamo i fatti. Sotto ac­cusa sono finite le disposi­zioni sulla «responsabilità solidale nell'ambito dei contratti di appalto e subap­palto» che l'Agenzia delle Entrate con la circolare n. 2/E ha esteso a tutte le tipo­logie di appalti. Nel 2012 una delle leggi per lo sviluppo del gover­no Monti ha introdotto la responsabilità a carico del committente. In pratica il committente è stato investi­to del compito di verifica­re se l'appaltatore abbia pa­gato l'Iva e le ritenute sul lavoro dipendente. Un con­trollo che se non svolto be­ne fa scattare multe pesan­tissime. Un sistema a misu­ra di edilizia, ma dal 1° marzo a sorpresa l'ammini­strazione finanziaria ha deciso di allargare la platea dei soggetti interessati e so­prattutto senza limiti quan­titativi della prestazione. E così per esempio anche un qualsiasi intervento di ara­tura commissionato dal­l'agricoltore al contoterzista finisce sotto il cappello della nuova legge. Le scel­te sono due: o si richiede l'autocertificazione da par­te di chi presta l'opera (con aggravio inevitabil­mente anche di carattere economico) oppure si ef­fettuano i controlli. Spesso impossibili. E con il ri­schio in caso di errori di pagare multe salatissime fi­no a 200mila euro. Ecco il «paradosso» agricolo: per un lavoro di pochi euro se ne potreb­bero pagare migliaia di multa.  Insomma, l'ennesimo «pasticciaccio» che ha spinto Cia e Confagricoltura a esprime­re la più ferma protesta.«Particolarmente grave - denunciano Cia e Confagricoltura in una no­ta congiunta - la situazio­ne che si viene a creare nel settore agricolo, dove è ri­chiesto alla totalità degli operatori del settore, anche di modeste dimensioni, di assumere la certificazione, da parte del prestatore di servizi, di aver assolto gli adempimenti in materia di Iva e di versamento delle ritenute, anche con riferi­mento ad appalti di modi­co valore contrattuale. La nuova Legislatura che si sta for­mando in questi giorni ha il dovere, anche etico, di can­cellare una misura che im­pone alle imprese di farsi carico di un'attività di con­trollo che compete all'Am­ministrazione finanziaria. Una misura che va contro ogni proposito di semplifi­cazione degli adempimenti gravanti sulle imprese tan­to sbandierati dalle forze politiche in campagna elet­torale».

La crisi pesa e picchia duro sulle famiglie italiane. Con una conseguenza eclatante: oltre sette famiglie su 10 (71%) negli anni della recessione han­no modificato quantità e qualità dei prodotti acquistati. È uno spaccato triste quello offerto in questi giorni in audizione dal presidente dell'Istat Enrico Giovannini. Tra il 2008 e il 2012, cioè da quando è iniziata la fase recessiva dell'econo­mia, le famiglie hanno ridotto il budget a disposizione per la spesa alimentare di oltre 12 miliardi di euro. Un fe­nomeno progressivo commenta il presidente della Cia Confederazione italiana agricoltori di Ascoli Piceno e Fermo che si è radicalizzato nell'ultimo anno, con le famiglie che si sono tro­vate a far fronte all' aumento esponen­ziale degli oneri fiscali (basti pensare all'Imu) mentre sono crollati ancora redditi e potere d'acquisto. Non solo. L'Istat racconta anche di disperate strategie di risparmio nel settore ali­mentare, tanto che nell'arco tra il 2007 e il 2013, la quota di famiglie che ha acquistato presso hard discount è quasi raddoppiata, superando il 21% nel 2011. Il fenomeno riguarda soprattutto i nuclei della fascia con i livelli di spesa più bassi. Famiglie che, nel confronto tra il 1997 e il 2011,hanno aumenta­to la spesa media del 42% ricorrendo anche a forme di indebitamento al punto che, nel 2011, il 19% di esse ha intaccato i propri risparmi e tra que­ste quasi la metà ha anche aumenta­to i debiti esistenti o ne ha contratto di nuovi. Sono gli stessi nuclei spiega ancora l'Istat nel documento presen­tato alle Commissioni speciali di Ca­mera e Senato che hanno sostanzial­mente eliminato le spese legate a voci non strettamente necessarie aumen­tando, anche a seguito della dinami­ca inflazionistica di tali beni e servizi, le spese per l'abitazione, combustibi­li e trasporti. Anche chi non rinuncia al biologico ora lo va a comprare dove costa di me­no; un segmento che continua a cre­scere (+7,3%) a dispetto del calo dei consumi alimentari convenzionali (3%), dove però, cambia radicalmente la modalità d'acquisto che si orienta sul lowcost. Negli ultimi dodici mesi, infatti la spesa bio nei discount ha fatto regi­strare un incremento record del 25,5%, mentre i supermercati resta­no a quota+5,5%. Magra consolazione.


Dal 2013 i Comuni non avrebbero più la facoltà di intervenire sull'aliquota Imu per i fab­bricati rurali ad uso strumentale, fissata allo 0,2%, riducendola sino allo 0,1%. A sostenerlo è  il Ministero dell'Econo­mia, in una risoluzione del 28 marzo, sulla base di alcune novità intro­dotte dalla legge di stabilità 2013. In  un comunica­to congiunto  Cia e Confagricoltura  contestano questa interpretazione in quanto il ben noto decreto "Salva Italia" (DI. n. 201 /2011), ave­va stabilito, tra i vari aspetti, che "c) aliquota per i fabbricati rurali stru­mentali: 0,2%, con la possibilità per cia­scun Comune di ridurla fino allo 0,1%". Chi scrive sottolinea che l'interpreta­zione delle finanze è del tutto arbitraria, poiché la legge di stabilità non ha in al­cun modo modificato, né direttamente né indirettamente, la possibilità per i Co­muni di applicare l'aliquota Imu dello 0,1% ai fabbricati rurali strumentali, infatti, il comma c dell'art. 13, del decreto salva Italia, risulta del tutto vigente. La richiesta che Cia e Confagricoltura hanno rivolto al ministro dell'Economia è quella di un «intervento urgente, volto a fare chiarezza sull'applicazione della norma speciale che prevede la riduzione dell'aliquota fino allo 0,1% per tutti i fab­bricati rurali strumentali, onde evitare ingiustificate discriminazioni».


La Senatrice De Petris (SEL)  ha chiesto in una interrogazione ai Ministri delle politiche agricole alimentari e forestali e dell'economia e delle finanze, perchè non sia stato ancora adottato l’art. 66 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, che  ha disposto che i terreni agricoli e a vocazione agricola, non utilizzabili per altre finalità istituzionali, di proprietà dello Stato e degli altri enti pubblici, debbano essere locati o alienati con diritto di prelazione per i giovani imprenditori agricoli. ai sensi del citato articolo, il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, deve adottare entro il 30 giugno di ogni anno un decreto di natura non regolamentare per individuare l'elenco dei terreni di proprietà pubblica da rendere disponibili per i giovani imprenditori agricoli; Tale decreto, che avrebbe dovuto essere predisposto entro il 30 giugno 2012, non risulta ad oggi ancora adottato;

La senatrice nella interrogazione ha ricordato che l'Italia manifesta tuttora un grave ritardo nei processi di ricambio generazionale dei conduttori agricoli, risultando ad oggi, insieme al Portogallo, il Paese con il più alto tasso d'invecchiamento, con 1 giovane agricoltore con meno di 40 anni ogni 14 conduttori agricoli che hanno superato i 65;

Secondo stime provenienti dall'Agenzia del demanio, i terreni a vocazione agricola di proprietà pubblica ammontano a circa 380.000 ettari, in buona parte nella disponibilità di regioni ed enti locali.

Da parte nostra auspichiamo che ci sia una risposta positiva e celere da parte del governo.